mercoledì 16 ottobre 2013

Le Lezioncine Americane, ovvero Il Calvino Ridimensionato

A quanto pare, si diffonde l'uso di parlare con sufficienza delle "Lezioni americane" di Calvino . Ieri Sandra Petrignani, commemorando il 90° anniversario della nascita di Calvino sull'Unità, le ha liquidate in poche righe: "lezioncine [...] francamente deludenti". Per andare alle radici di un giudizio tanto sbrigativo, bisogna leggere il saggio pubblicato qualche anno fa su Belfagor da Claudio Giunta, e poi riproposto su minima & moralia. Il saggio di Giunta meriterebbe, in realtà, un'analisi tanto approfondita quanto quella che il suo autore dedica a Calvino, ma non è questo il luogo. Da calviniano di lungo corso, devo ammettere che, sotto molti aspetti, il saggio è condivisibile, soprattutto nelle considerazioni generali. Ad esempio quando parla dell'uso che fanno gli umanisti del linguaggio della scienza (o della logica). Così come è centrata sull'obiettivo la polemica sulla "mania" della metaletteratura, che tanto ruolo ha avuto nelle lettere contemporanee, da Eco in su. Persino l'accostamento ad Arbasino, per quanto forse eccessivamente ingeneroso, è retoricamente azzeccato e non privo di una sua illuminante verità. Devo anche dire che, benché calviniano osservante e praticante, penso che avesse ragione Gore Vidal: è vero che il soggiorno a Parigi non ha giovato alla prosa di Calvino.

Detto questo, secondo me c'è qualcosa non va, in quel saggio. La cosa che va meno di tutte è che per tutto il testo Giunta dà chiaramente l'impressione di non avere per obiettivo né Calvino né le Lezioni, ma "l'eccesso di zelo dei suoi apologeti", e soprattutto di alcuni tra essi. Che le cose stiano così diventa flagrante quando Giunta dice che "le reazioni sono infinitamente piú interessanti del libro", e inizia chiaramente (e per lo più a proposito, va detto) a prendersela con i citatori delle Lezioni (che citando un libro di citazioni sono citatori al quadrato). Mettere però le mani avanti dicendo che si ha a che fare con un libro incompleto, postumo, una raccolta di appunti che va presa per quel che è, e poi tacciarlo di "kitsch" e "puerile", con il probabile intento di attaccare gli epigoni dell'autore, è un'operazione sdrucciolevole. Se il nocciolo della questione è che il testo non va preso per più di quel che é (il che, in ultima analisi, mi sembra giusto), allora basta fermarsi all'evidenziazione delle incongruenze, delle inesattezze, delle imperfezioni. Se si danno giudizi così netti e tranchant si dà anche l'impressione, almeno a me, di prenderlo sul serio proprio come lo presero sul serio Asor Rosa e Scalfari, seppure "a contrario". E allora, forse, una certa acredine offusca l'analisi.
E dico offusca l'analisi, perché in alcuni passi l'argomentare pure così chiaro e preciso appare proprio offuscato. Curiosamente, tale offuscamento avviene, secondo me, ricorrendo ad affermazioni apodittiche. Attraverso, cioè, un vizio che l'autore stesso rimprovera alle Lezioni di Calvino. Prendiamo ad esempio la questione dell'accostamento, compiuto da Calvino, tra Montale a Ovidio, che secondo Giunta sarebbe indebito. E' giusto rilevare che può trattarsi di un accostamento abusivo, ma perché far leva sul fatto che "due millenni separano le Metamorfosi di Ovidio dalla Bufera di Montale" come se questo fosse il punto in ragione del quale "nonostante quello che pensa o sembra pensare o sembra voler suggerire Calvino, assolutamente niente di significativo li unisce, e il confronto tra loro non porta, assolutamente, a niente". Questo, semplicemente, non si può dire. Autori come Montale hanno alle spalle quella tradizione, e qualcosa di significativo su questo si può anche dire. Qui, gli argomenti di Giunta non sembrano sufficienti a giustificare un'affermazione tanto perentoria da meritare due "assolutamente" in un solo periodo. Per fare una battuta: non vorrei essere accusato di citazionismo indebito da Giunta, ma a memoria mi viene il fatto che tra i poeti che calunniarono l'upupa c'è, oltre a Foscolo, proprio Ovidio.
Lo stesso meccanismo, più avanti, si ripete con Gadda. Giunta dice che "non c'è nessuna vera ragione di citare il principio d'indeterminazione per spiegare le idee e la scrittura di Gadda: così come non c'è nessuna vera ragione di mescolare la relatività di Einstein e il relativismo morale". Anche qui, il tono sembra eccessivamente apodittico. Una cosa è dire che certi accostamenti sono usati a sproposito (relatività / relativismo), un'altra che l'accostamento tra la scrittura di Gadda e ilprincipio di indeterminazione non ha "nessuna vera ragione" . Intendo dire: in questo caso Calvino potrà essere stato ambiguo, ma perché "non c'è nessuna vera ragione"? Giunta non lo dice. Non mi pare irragionevole dire che un tema come questo può avere avuto un'influenza nella scrittura di Gadda: magari anche questa influenza era eccessiva o derubricabile come una semplice "suggestione", ma l'accostamento può anche non essere così peregrino.
Infine, che il compito delle metafore sia "precisamente" quello di complicare il discorso e non di renderlo più chiaro, come dice Giunta, si tratta di un'affermazione che, detta così, è fuorviante. Le metafore, c'è chi le usa per chiarire, chi per complicare, ma "precisamente" non hanno né soltanto l'una né soltanto l'altra funzione. Ma c'è un punto che forse chiarisce il difetto principale del saggio: l'accusa, ancorché en passant, di opportunismo. È persino eccessivo rilevarla, se non fosse che, secondo me, dimostra che il vero difetto del saggio è un eccesso di "ira et studio", rivolto per lo più, appunto, ai suoi interpreti. Può anche darsi che gli appunti di Calvino non siano altro che "lezioncine", ed è giusto notarlo, ma non al punto di attribuir loro, tra i molti possibili difetti, quello di essere state trasformate in un feticcio alla moda. Non sono responsabili della loro sopravvalutazione.

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