lunedì 25 luglio 2016

Tre usi recenti della metafora dell'ape e dell'alveare – Parte seconda


2) Alveari e beni comuni
Un altro recupero interessante – ma non sorprendente – della metafora dell'alveare riguarda il discorso intorno alle “economie fondate sul comune” recentemente tornate alla ribalta grazie a quegli autori, come Ugo Mattei (Beni Comuni, Laterza), che hanno sviluppato il tema dei cosiddetti “beni comuni” come alternativa alla dicotomia tra “pubblico” e “privato”. Riferendosi a tali economie – e anzitutto alle loro versioni concrete, pre-moderne – proprio Ugo Mattei ha parlato di «una struttura comunitaria in equilibrio, in cui il tutto (la comunità) non si riduce all’aggregato delle sue parti (gli individui), ma presenta tratti suoi propri che ricevono senso proprio dalla loro capacità di soddisfare esigenze comuni. Una comunità ecologica, infatti, è un "tutto" in equilibrio con le sue parti, con le risorse a disposizione e con altre comunità ecologiche. Così l’alveare non si riduce alla somma algebrica delle api, ma comprende anche le relazioni fra le diverse componenti (operaie, guardiane, regina ecc.), quelle fra il gruppo e i suoi beni (nido) e prodotti (miele)». (U. Mattei, Beni comuni, 28). A proposito di questo passo, e della “metafora della comunità ecologica come alveare”, Ermanno Vitale ha notato come essa si situi «interamente in una dimensione olistica, organicistica e fortemente gerarchica», la quale sarebbe «l’esatto contrario di una società fondata sui diritti della persona e del cittadino». «L’alveare – continua Vitale - è il modello di una “comunità naturale” militarmente organizzata». (E. Vitale Contro i beni comuni: Una critica illuminista, Laterza).
L'uso della metafora qui vale – soprattutto – a mettere in luce due aspetti. Il carattere fortemente cooperativo della società / alveare e la dimensione sovra-individuale di una comunità che “non si riduce alla somma” dei suoi componenti, che non si limita cioè a essere un mero aggregato di individui. Sembra, in un certo senso, di sentire qui echi del vecchio uso che della metafora facevano gli scrittori reazionari e antirivoluzionari, che difendevano una comunità in qualche modo tradizionale contro l'individuo-cittadino rivoluzionario. 
In realtà, l'alveare come metafora di una comunità non individualista e cooperativa si afferma nella simbologia delle cooperative operaie della fine del XIX secolo. Ancora nei primi anni del XXI secolo si poteva vedere un'ape sull'home page del sito della lega delle cooperative, ultimo ricordo di una simbologia apistica che, tra l'altro, è stata molto comune anche tra le casse di risparmio.
Dalle cooperative operaie, l'alveare passa facilmente al cooperativismo e al corporativismo fascista. In quest'ambito, alle caratteristiche della cooperazione e della società come “organismo” sovra-individuale si aggiunge – come suggerisce Vitale – l'idea di una società irregimentata, ben simboleggiata dal carattere ordinatamente gerarchico dello sciame. E, soprattutto, l'idea della società come un organismo naturale, che progredisce soltanto se ogni parte svolge la sua funzione, se occupa il posto che le è stato assegnato. Come ha notato Alessandra Frontani, “l’alveare [...] richiamava alla laboriosità, ma anche alla disciplina, alla condivisione del lavoro all’interno di una società rigidamente gerarchica e obbediente” (“Le mani intrecciate. Per uno studio sull’immaginario collettivo della cooperazione”, Storia e Futuro, 24, 2010). Così si poteva leggere, infatti, sulla “Voce del Consumatore del novembre 1930: “L’alveare è il simbolo della cooperazione fascista che si basa sulla giustizia, la disciplina e la solidarietà” (30 novembre 1930, n. 6, 2). Anche in questo caso, dunque, è interessante vedere tutti gli aspetti che una certa lettura della metafora porta con sé.
(Continua)

sabato 23 luglio 2016

Tre usi recenti della metafora dell'ape e dell'alveare – Parte prima


Premessa
Nel corso del Novecento – e, in particolare, dalla seconda metà del secolo – la metafora dell'alveare, da sempre comune nel discorso politico e morale, è andata assumendo una sempre più marcata connotazione negativa. Fino ad allora, l'alveare, lo sciame, l'ape erano stati utilizzati, tendenzialmente, come esempi positivi della società, dello stato, del cittadino. A questa immagine positiva si accostano, via via, una serie di immagini negative. Anche in ambito architettonico, del resto, all'alveare come costruzione ideale e all'ape come architetto naturale veniva gradualmente accostata, quando non sostituita, l'immagine negativa dei grandi “alveari” dei quartieri dormitorio: monotoni, affollati e alienanti.
Due elementi hanno – in primo luogo – favorito questa reinterpretazione. Da un lato, una minore propensione – in società multietiche e post-tradizionali – a discutere sulla “natura” della società, ossia a distinguere tra società più o meno naturali. L'argomento naturalistico – secondo cui qualcosa è valutato positivamente per il solo fatto di essere “naturale” - ha perso efficacia, per lo meno in ambito politico e sociale, fino ad essere considerato come un argomento di per sé fallace. Ha perso efficacia – curiosamente – nello stesso momento in cui la guadagnava in altri ambiti (basta pensare all'idea del “naturale” come “positivo” diffusa dai movimenti ecologisti e new age). Dall'altro lato, in contesti culturali che condividono un punto di vista individualistico sull'uomo e sulla società (sempre più chiamata a favorire, e non a ostacolare, lo sviluppo autonomo dell'individuo, così come lo stato è chiamato a riconoscere e promuovere i diritti individuali), l'ape operaia che sacrifica la propria individualità al bene della comunità ha perso, fatalmente, la connotazione di modello positivo.
È possibile – a titolo di esempio – prendere in considerazione alcuni usi recenti, apparsi nella pubblicistica e in testi di teoria politica, della metafora. È interessante notare – ad esempio – come l'uso dell'alveare come modello positivo riappare, negli ultimi anni, in testi che intervengono, in maniera diversa, nel dibattito contemporaneo sul “neoliberismo” o sul ruolo del “capitalismo finanziario”.

mercoledì 19 novembre 2014

La Stracciarola di Palazzo Madama


Il video di Paola Taverna contestata a Tor Sapienza dovrebbe essere intitolato, semplicemente, “La nemesi”. Lo spettacolo della povera senatrice cui vengono ritorti contro gli stessi cliché e lo stesso linguaggio che il M5S usa di solito contro la “Casta” è un autentico caso di giustizia compensativa. I topoi della retorica antipolitica del Movimento ci sono tutti: il politico intrallazzatore sotto mentite spoglie (“er Movimento 5 Stelle che è, a Caritas?”), che si fa vedere solo quando non ha altro da fare (“t'hanno dato cinque ggiorni de sospenzione, se no cor cazzo che stavi qua!”) o solo quando gli conviene (“fino a lunedì 'ndo stavi?”) e con il solo scopo di raccattare qualche voto (“nun volemo accattonaggio de voti!”), fino all'inevitabile riferimento polemico al lauto stipendio (i “tremila euro”). E dall'altra parte, la povera Taverna (nomen omen), una delle più quotate urlatrici di Palazzo Madama (“a ggente nun c'ha 'r pane e voi state a ffà e riforme gostituzzionali!”), costretta, contrappasso dei contrappassi, ad additare minacciosamente una contestatrice dicendole “Te, devi abbassa' a voce”, per poi tentare il riscatto con l'arroganza tipica del Movimento: “Io nun so' politica, so' a ggente der Quarticciolo” – versione ruspante e degna dell'onorevole Angelina del più ripulito ma altrettanto arrogante “noi siamo la società civile” di Roberta Lombardi, vertice assoluto del populismo e del delirio di onnipotenza dei parlamentari del M5S.


Sarà stato il riferimento al Quarticciolo, sarà stato il tono gagliardamente popolaresco dello scambio dialettico, ma il video mi ha ricordato un memorabile passaggio di “Ladro lui, ladra lei”, una commedia di Luigi Zampa del 1958. Nella scena, la padrona dell'atelier di moda Marialele, interpretata da Marisa Merlini (doppiata in realtà da Lydia Simoneschi), passa dall'italiano forbito, con birignao in francese à la page, al più puro romanesco, quando il suo vecchio amico d'infanzia Cencio (Alberto Sordi) la riconosce come “a fija de Zaira a Stracciarola”. A Cencio, che le chiede di "togliergli una curiosità" e di dirgli con che lana è tessuto un vestito dell'atelier d'alta moda, Marialele, con sguardo d'intesa, confessa che si tratta proprio di "lana mortaccina", cioè di "lana delle pecore morte di malattia": lana di ultima scelta, insomma.
A differenza del personaggio interpretato dalla Merlini, alla Taverna non fa difetto la sincerità (né, probabilmente, l'onestà): lei, l'italiano forbito, manco sa dove sta di casa. Viene però da pensarla in un ideale lieto fine di questa tragicomica debacle, mentre a riflettori spenti, spogliati i ruoli istituzionali che la vita pubblica ci costringe tutti a recitare, finalmente s'intende col suo contestatore: “a Paola, ma lévame 'na curiosità... ma questo, che è?”. E lei: “A Ce', ma che domande me fai: questo è accattonaggio de voti!”.

martedì 3 giugno 2014

I vizi e le virtù dell'alveare


«Le api sono state per noi quel che sono le nuvole: ciascuno vi ha visto quel che vi voleva vedere». Così il (politicamente) volatile Michel de Cubières riassunse in una frase la travagliata storia politica dell'alveare. Arruolate sotto tutte le bandiere, le api hanno servito nei secoli la propaganda di ogni schieramento. Piacevano, ovviamente, ai monarchici, che vedevano nei docili e ordinati imenotteri, laboriosi e naturalmente rispettosi della gerarchia, la migliore immagine del suddito ideale dell'ancien régime. Proprio per questo, quando, nel 1792, il Chevalier de Cubières, allora più opportunamente noto come Citoyen Cubières, dava alle stampe il suo poema sul “governo felice” delle api, anche l'ordine stabilito della “monarchia femminile” (come l'aveva definita il naturalista inglese Charles Butler, nel 1609) era travolto dall'impeto dei venti rivoluzionari. Furono infine i naturalisti dell'Ècole Normale ad assumersi l'incarico di detronizzare la regina delle api, facendo dell'alveare una repubblica. Se ne discusse nel corso di storia naturale del professor Daubenton, nell'anno III. Non è vero, sosteneva Daubenton, che l'alveare è retto da un monarca: quella che erroneamente si chiamava “re” o “regina” delle api, confondendone il ruolo non meno che il sesso, altro non è che una “ape madre”: una specie di “fattrice”, buona solo per deporre le uova. Nell'arnia repubblicana, è lo sciame la fonte della sovranità. Frugali, egualitarie e pronte a difendere il loro alveare, le api erano ora diventate l'immagine ideale del cittadino vagheggiato sui banchi dell'Assemblea Nazionale. Non sono forse loro a selezionare la regina, nutrendola di pappa reale con quella che poteva ben sembrare una versione alimentare del suffragio universale, e addirittura a liberarsene, quando non serve più e occorre sostituirla con una nuova? Le api non solo non erano monarchiche, ma all'occorrenza addirittura regicide.
La restaurazione proverà a cancellare il ricordo delle api giacobine: ancora nel 1819, Joseph De Maistre recuperava, nel suo libro sul Papa, l'analogia tra l'alveare e la monarchia assoluta. Provate a togliere la regina dall'alveare, chiedeva polemicamente il pensatore savoiardo: avrete tante api quante ne vorrete, ma non avrete mai uno sciame. Ossia: tagliate pure la testa ai re, e non vi sarà più nessuna nazione: solo un popolo disperso e senza guida. Nonostante gli sforzi di De Maistre, e quelli di Carlo X, delle vecchie monarchie assolute non era rimasta che l'allegoria. Alla fine, anche le api dovettero adeguarsi all'industrializzazione. Organizzate dall'apicoltura moderna in arnie “razionali”, che permettono di raccogliere il miele senza distruggere lo sciame, le api si prepararono per la loro ultima reincarnazione: le perfette operaie delle comunità industriali progettate dai socialisti utopisti. L'arnia come falansterio: un'organizzazione razionale e cooperativa, guidata da una regina la cui unica preoccupazione è il benessere dello sciame.

giovedì 27 febbraio 2014

Disciplina e democrazia

Grillo e tutti gli aderenti al M5S sono perfettamente legittimati a fare quello che hanno fatto, ovvero ad espellere i quattro senatori dal loro gruppo parlamentare. Non c'è assolutamente nulla di strano, né di insolito: non è la prima volta che succede, e probabilmente non sarà l'ultima. Se hanno deciso di darsi un regolamento interno, e delle procedure di votazione per giudicare delle infrazioni, tutto quel che è accaduto è semplicemente logico e conseguente. Anche sulla questione del “vincolo di mandato”, enunciato nell'articolo 67 della nostra costituzione, c'è poco da dire, dal momento che, ovviamente, i quattro senatori non decadono da parlamentari e possono tranquillamente continuare a rappresentare la nazione in parlamento, sempre che non si vogliano dimettere autonomamente (ma poi le dimissioni devono essere approvate...).

mercoledì 16 ottobre 2013

Le Lezioncine Americane, ovvero Il Calvino Ridimensionato

A quanto pare, si diffonde l'uso di parlare con sufficienza delle "Lezioni americane" di Calvino . Ieri Sandra Petrignani, commemorando il 90° anniversario della nascita di Calvino sull'Unità, le ha liquidate in poche righe: "lezioncine [...] francamente deludenti". Per andare alle radici di un giudizio tanto sbrigativo, bisogna leggere il saggio pubblicato qualche anno fa su Belfagor da Claudio Giunta, e poi riproposto su minima & moralia. Il saggio di Giunta meriterebbe, in realtà, un'analisi tanto approfondita quanto quella che il suo autore dedica a Calvino, ma non è questo il luogo. Da calviniano di lungo corso, devo ammettere che, sotto molti aspetti, il saggio è condivisibile, soprattutto nelle considerazioni generali. Ad esempio quando parla dell'uso che fanno gli umanisti del linguaggio della scienza (o della logica). Così come è centrata sull'obiettivo la polemica sulla "mania" della metaletteratura, che tanto ruolo ha avuto nelle lettere contemporanee, da Eco in su. Persino l'accostamento ad Arbasino, per quanto forse eccessivamente ingeneroso, è retoricamente azzeccato e non privo di una sua illuminante verità. Devo anche dire che, benché calviniano osservante e praticante, penso che avesse ragione Gore Vidal: è vero che il soggiorno a Parigi non ha giovato alla prosa di Calvino.